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Il film è stato accolto in modo molto positivo dalla critica, con una percentuale di gradimento del 93% ed un voto medio di 8.70 su Rotten Tomatoes[4]. Nonostante il tema dell'Olocausto sia stato ampiamente affrontato, filmato e dibattuto dal cinema con opere monumentali entrate nella cultura collettiva di tutti, Glazer riesce a trovare un nuovo punto di vista dal quale raccontare questo evento storico. Auschwitz è lo sfondo della scenografia, è presente, sempre, ma non ci entriamo mai. Siamo di fronte a un film di sottrazione visiva e immersione sonora nei rumori onomatopeici del campo di sterminio, anche quelli esterni, ma decisamente invadenti. Intorno al campo c'è una vita bucolica, perfettamente tedesca e così "meravigliosamente" ariana. Auschwitz è una fabbrica come tante altre, il suo ritmo "produttivo" lo percepiamo, lo ascoltiamo distanti, ma non troppo, mentre tutto scorre in perfetta armonia. La fredda e rigorosa messa in scena ci lascia impietriti, attoniti di fronte ad una famiglia che vive a fianco ad uno dei più grandi orrori del Novecento senza percepire un sentimento, un brivido.
La mano registica di Glazer è minimale, ma efficace nella rappresentazione, coglie i dettagli sullo sfondo riuscendoli a portare emotivamente in primo piano. Pur muovendosi in uno spazio stretto e con poco respiro è in grado di regalarci addirittura uno dei piani sequenza più glaciali della storia del cinema. Le ceneri, il treno che porta i deportati, i latrati dei cani che abbaiano, gli spari: ritroviamo tutti i punti cardinali e gli elementi caratteristici di questo universo, ma mai mostrati "davanti". Eppure, pur essendo sempre dietro le quinte, l'orrore ci penetra dentro l'anima.